Il Parco nazionale del Gran Paradiso (in francese, Parc national du Grand-Paradis), istituito nel 1922, è il più antico Parco nazionale italiano insieme al Parco Nazionale d'Abruzzo istituito pochi mesi dopo. Si estende a cavallo delle regioni Valle d'Aosta e Piemonte ed è gestito dall'Ente Parco Nazionale Gran Paradiso, con sede a Torino. Si estende per una superficie di circa 70.318 ettari, su un terreno prevalentemente montagnoso.
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none</imagemap>Aree naturali protette in Italia |
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Tipo di area: | Parco Nazionale |
Codifica EUAP: | EUAP0006 |
Regioni: | Valle d'Aosta, Piemonte |
Province: | Aosta, Torino |
Comuni: |
Aymavilles (AO) Ceresole Reale (TO) Cogne (AO) Introd (AO) Locana (TO) Noasca (TO) Rhêmes-Notre-Dame (AO) Rhêmes-Saint-Georges (AO) Ribordone (TO) Ronco Canavese (TO) Valprato Soana (TO) Valsavarenche (AO) Villeneuve (AO) |
Class.internaz.: | IBA - SIC |
Provvedimenti istitutivi: | R.D.L. 1584, 03.12.22 - D.P.R. 03.10.79 |
Superficie a terra: | 70.318 ha |
Gestore: | Ente Parco Nazionale Gran Paradiso |
Presidente: | Giovanni Picco |
Sito istituzionale |
Il Parco nazionale del Gran Paradiso (in francese, Parc national du Grand-Paradis), istituito nel 1922, è il più antico Parco nazionale italiano insieme al Parco Nazionale d'Abruzzo istituito pochi mesi dopo. Si estende a cavallo delle regioni Valle d'Aosta e Piemonte ed è gestito dall'Ente Parco Nazionale Gran Paradiso, con sede a Torino. Si estende per una superficie di circa 70.318 ettari, su un terreno prevalentemente montagnoso. Coordinate:
La storia del Gran Paradiso è strettamente intrecciata con la salvaguardia del suo animale simbolo: lo stambecco (Capra ibex ibex). Questo ungulato, un tempo largamente diffuso a quote elevate, oltre il limite del bosco, su tutto l'arco alpino è stato oggetto di caccia indiscriminata per secoli. I motivi per cui lo stambecco era una preda così ambita dai cacciatori erano i più disparati: la succulenza delle sue carni, alcune parti del suo corpo erano considerate medicinali, l'imponenza delle sue corna ricercate come trofeo e persino il potere afrodisiaco attribuito ad un suo ossicino (la croce del cuore) spesso utilizzato come talismano. All'inizio del XIX secolo si riteneva che questo animale fosse ormai estinto in tutta Europa finché l'ispettore forestale valdostano Delapierre (detto anche Zumstein, secondo la parlata di Gressoney) scoprì che negli impervi e scoscesi valloni che discendono dal massiccio del Gran Paradiso ne sopravviveva una colonia di circa cento esemplari. ]]
Il 21 settembre 1821 il re di Sardegna Carlo Felice emanava le
Regie Patenti con le quali ordinava:«Rimane fin d'ora proibita
in qualsivoglia parte de' regii domini la caccia degli
stambecchi». Questo decreto, che salvò lo stambecco
dall'estinzione, non fu ispirato da valori di protezionismo
ambientale, non contemplati nella mentalità dell'epoca, ma da mere
speculazioni venatorie. La rarità di questi esemplari ne rendeva la
caccia un lusso che il sovrano concedeva solo a sé stesso. Nel 1850
il giovane re Vittorio Emanuele II, incuriosito dai racconti del
fratello Fernando, che durante una visita alla miniera di Cogne era stato a
caccia, volle percorrere di persona le aspre valli valdostane.
Partì dalla valle di Champorcher,
valicò, a cavallo, l'omonima finestra a quota 2828 m e raggiunse
Cogne, lungo questo
tragitto uccise sei camosci ed uno stambecco. Il re rimase colpito
dalla abbondanza di fauna e decise di costituire in quelle valli
una riserva reale di caccia. Furono necessari alcuni anni affinché
i funzionari di Casa Savoia riuscissero a stipulare centinaia di
contratti in cui i valligiani e i comuni cedevano al sovrano
l'utilizzo esclusivo dei diritti venatori (relativi alla caccia al
camoscio ed ai volatili, poiché la caccia allo stambecco era
vietata ai valligiani, già da un trentennio) ed in alcuni casi
persino dei diritti di pesca e di pascolo (vale a dire che i
montanari non potevano più portare ovini, bovini e caprini sui
pascoli d'alta quota riservati d'ora in poi alla selvaggina).
Nasceva così ufficialmente, nel 1856, la Riserva Reale di Caccia
del Gran Paradiso il
cui territorio era più ampio dell'attuale parco nazionale; infatti
comprendeva anche alcuni comuni valdostani (Champorcher,
Champdepraz,
Fénis, Valgrisenche, Brissogne) che in
seguito non furono inseriti entro i confini dell'area protetta. I
valligiani, dopo i primi malumori, cedettero volentieri i loro
diritti al sovrano, comprendendo che la presenza dei sovrani in
quelle valli fino ad allora quasi al di fuori del mondo avrebbe
portato benessere per la popolazione locale. Re Vittorio promise
che avrebbe fatto "trottare i quattrini sui sentieri del
Gran
Paradiso". Fu istituito un corpo di vigilanza composto di
circa cinquanta addetti denominati Reali Cacciatori Guardie, furono
restaurate chiese, argini e case comunali, furono costruiti casotti
per i guardaparco e case di caccia più grandi utilizzando
manovalanza locale. Tuttavia, l'opera più importante che cambiò il
volto delle valli aostane e canavesane fu la fittissima rete di
mulattiere selciate fatte costruire per collegare i paesi con le
case di caccia e quest'ultime tra di loro (coprivano una distanza
di oltre 300 km). Queste strade furono progettate per permettere al
re ed al suo seguito di spostarsi comodamente a cavallo all'interno
della riserva. La maggior parte di esse è ancor oggi percorribile.
Superano dei ripidi versanti con innumerevoli, ampissimi tornanti
mantenendo sempre una lieve e costante pendenza. Si snodano in
buona parte oltre i duemila metri ed in taluni casi superano i
tremila (Colle del Lauson 3296 m e Colle della Porta 3002 m). I
punti più impervi sono stati superati scavando il tracciato nella
roccia. La carreggiata è lastricata di pietre, sostenuta da muri a
secco costruiti con notevole perizia e presenta una larghezza
variabile da uno ad un metro e mezzo.
Il tratto meglio conservato si trova in Valle Orco; dal Colle del
Nivolet, dopo un primo tratto a mezzacosta, la mulattiera reale
scavalca i colli della Terra e della Porta, tocca la casa di caccia
del Gran Piano (recuperata di recente come rifugio) per poi
scendere al paese di Noasca.
in una litografia del Perrini.]] Re Vittorio si recava nella
riserva del Gran Paradiso di solito nel mese di agosto e vi si
fermava da una a quattro settimane. I giornali e le pubblicazioni
dell'epoca esaltano il carattere bonario del re, che conversa e
discute con grande affabilità, in lingua piemontese, con la
popolazione locale e lo descrivono come un baldo cavaliere ed un
fucile infallibile. In realtà le campagne di caccia erano
organizzate in modo che il re potesse fare il tiro a segno sulle
prede stando comodamente ad aspettare in una delle poste di
avvistamento costruite lungo i sentieri.
Il seguito del re era composto da circa 250 uomini, ingaggiati tra
gli abitanti delle valli, che svolgevano le mansioni di battitori e
portatori. Per quest'ultimi la caccia cominciava già nella notte.
Si recavano nei luoghi frequentati dalla selvaggina, formavano un
enorme cerchio attorno agli animali e poi con urla e spari li
spaventavano in modo da spingerli verso la conca dove il re era in
attesa dietro una vedetta semicircolare di pietre. Soltanto il
sovrano poteva sparare agli ungulati; alle sue spalle stava il
"grand veneur" che aveva l'ordine di dare il colpo di grazia agli
esemplari feriti o sfuggiti al tiro del re. Oggetto della caccia
erano i maschi di stambecco e camoscio adulti. Ne venivano
abbattuti diverse decine al giorno. Nonostante queste annuali
carneficine, la scelta di risparmiare le femmine ed i cuccioli
favorì l'aumento del numero degli ungulati e le cacce reali
divennero di anno in anno più abbondanti.
Il giorno dopo la caccia il re ed il suo seguito si trasferivano
alla successiva casa di caccia, la domenica era di riposo per i
battitori e dai paesi qualche prete saliva a celebrare la messa
all'aperto. Il percorso maggiormente battuto dal re durante i suoi
tours del Gran Paradiso era
il seguente: partiva da Champorcher, valicava l'omonima finestra
(2828 m), scendeva a Cogne, raggiungeva Valsavarenche passando dal
Colle Lauson (3296 m), saliva al Colle del Nivolet (2612 m) e da
qui si inoltrava nel territorio piemontese passando sopra Ceresole Reale
per poi scendere fino al paese di Noasca (1058 m) lungo il vallone
di ciamosseretto (come dice il nome ricchissimo di camosci). Le
case di caccia maggiormente utilizzate furono quelle di Dondena
(2186 m), del Lauson (2584 m, oggi rifugio Vittorio Sella), di
Orvieille e del Gran Piano di Noasca (anche quest'ultima
recentemente recuperata come rifugio).
Anche i successori di Re Vittorio, Umberto I e Vittorio Emanuele
III, intrapresero lunghe campagne venatorie nella riserva. L'ultima
caccia reale si svolse nel 1913.
Vittorio Emanuele III, più colto e meno affabile con i valligiani
del nonno, cambiò orientamento e decise, nel 1919, di cedere allo
Stato i territori del Gran Paradiso di sua proprietà con i relativi
diritti, indicando come condizione che si prendesse in
considerazione l'idea di istituire un parco nazionale per la
protezione della flora e della fauna alpina.
Il 3 dicembre 1922 re Vittorio Emanuele III firmava il decreto legge che istituiva il Parco Nazionale del Gran Paradiso. L'articolo 1 del decreto sancisce che la finalità del parco è quella di "conservare la fauna e la flora e di preservare le speciali formazioni geologiche, nonché la bellezza del paesaggio". L'articolo 4 sancisce che la gestione è affidata alla Commissione Reale del Parco Nazionale del Gran Paradiso. Seguono una serie di norme: nel perimetro del parco sono vietate la caccia e la pesca, l'accesso con cani, armi ed ordigni che servano a tali scopi, la Commissione può sospendere e regolare il pascolo in alcune località. Il servizio di vigilanza venne affidato al Corpo Reale delle foreste che reintegrò tutti i guardaparco della vecchia riserva che ne fecero richiesta. Vennero poi gli anni bui del parco.
Nel 1933 fu abolita con regio decreto la Commissione Reale e la gestione del parco passò al ministero (fascista) per l'Agricoltura e Foreste. La sorveglianza, affidata alla Milizia Nazionale Forestale, divenne una sorta di servizio punitivo: venivano mandati dei malfattori o degli antagonistici politici, spesso non abituati alla rigidità della montagna, ad espiare le proprie pene (una specie di "piccola Siberia" italiana). La vigilanza perse d'efficacia, riprese il bracconaggio e a volte fu persino ordinato ai guardaparco di uccidere esemplari di stambecchi e di camosci della miglior specie per farne dono alle autorità militari. Durante la guerra, data l'assoluta scarsità di viveri, il bracconaggio si rese necessario anche per la popolazione locale.
Tornata la pace gli stambecchi erano ridotti ad appena 400 capi. Il 5 agosto 1947, con decreto legislativo del Capo provvisorio dello Stato Enrico De Nicola, venne istituito l'Ente Parco Nazionale Gran Paradiso con un consiglio di amministrazione composto da 13 elementi ed un corpo di guardie giurate alle sue dirette dipendenze. Fu nominato direttore soprintendente (lo sarà sino al 1969) il prof. Renzo Videsott che l'anno successivo, nel 1948, vi costituirà nel castello di Sarre la prima associazione ambientalista italiana, la Federazione Nazionale Pro Natura. Terminava così il lungo percorso di passaggio, durato quasi un trentennio, dalla riserva di caccia al parco nazionale. Il parco nazionale del Gran Paradiso è senza dubbio una delle più belle mete d'Italia, adatta a qualsiasi tipo di esigenza, specialmente per le famiglie.
Il Gran Paradiso è
l'unico massiccio montuoso culminante a oltre 4000 metri
interamente in territorio italiano. Dai suoi contrafforti
discendono degli impervi valloni che originano sei valli (Val di
Cogne, Valsavarenche, Val di Rhêmes, Valle dell'Orco, Val Soana e
Valle di Champorcher). La fascia che va dai tre ai 4000 m è
ammantata di candidi ghiacciai, più estesi sul lato valdostano. Si
tratta di ghiacciai perenni ma relativamente recenti essendosi
formati durante la "piccola glaciazione" del secolo XVII.
Dalla cima più alta (4061 m) parte la dorsale che divide Cogne da Valsavarenche
la quale, scendendo verso Aosta, si impenna nelle
due vette dell'Herbetet (3778 m) e della Grivola (3969 m). Sul
versante piemontese si stagliano verso il cielo il Ciarforon (3642
m), la Tresenta (3609 m), la Becca di Monciair (3544 m). Queste
montagne sono facilmente individuabili, da un occhio esperto, anche
dalla pianura torinese. Il Ciarforon è una delle vette più
singolari delle Alpi: sul versante aostano è ricoperto da un'enorme
calotta ghiacciata; dal Piemonte appare come uno spoglio monte di
forma trapezoidale.
La Torre del Gran San Pietro (3692 m) e i Becchi della Tribolazione
(3360 circa) si trovano nell'alto vallone di Piantonetto; il punto
di osservazione privilegiato è il rifugio Pontese al Pian delle
muande di Teleccio.
Dalla Punta di Galisia (3346 m), un monte sulla cui sommità si
incontrano i confini di Piemonte, Valle d'Aosta e Francia, si stacca
in direzione sud-est un crinale fatto di cime frastagliate e
appuntite che culminano nell'imponente bastionata rocciosa delle
tre Levanne (3600 m circa): sono le dentate e scintillanti
vette che ispirarono l'ode "Piemonte" al poeta Giosuè
Carducci che nel 1890 ebbe modo di venire da queste parti mentre
presiedeva gli esami di maturità a Cuorgné.
La Granta Parei (3387 m) è la montagna simbolo della Val di Rhêmes:
segna il punto più occidentale del parco.
Le vette del settore orientale del parco sono più basse; tra di
esse spiccano la Punta Lavina (3274 m) e la Rosa dei Banchi (3164
m). Quest' ultima è molto frequentata dagli escursionisti per
l'aereo panorama che offre verso la Valle Soana e la Valle di
Champorcher.
Le cime del parco nazionale fanno parte ovviamente delle Alpi Graie.
]]
e Serrù visti dal colle del Nivolet]]
Data la forte acclività che caratterizza i valloni del Gran Paradiso va da sé che i torrenti che li solcano originino lungo il loro impetuoso fluire numerose cascate che ingentiliscono l'aspro paesaggio del parco. Le più spettacolari sono quelle di Lillaz, frazione di Cogne. Anche sul versante piemontese vi sono alcune pittoresche cascate facilmente osservabili dai turisti: quella sovrastante l'abitato di Noasca oppure quella formata dal torrente di Nel all'altezza della borgata Chiapili di sotto. Nei pressi delle baite di Chiapili di sopra, la borgata più alta di Ceresole Reale, altre due fragorose cascate fanno bella mostra di sé.
Nella parte più bassa del parco, come livello altimetrico, sono
presenti boschi di latifoglie composti da pioppo tremulo, nocciolo,
ciliegio selvatico, acero montano, quercia, castagno, frassino, betulla,
sorbo degli uccellatori. Le faggete, in una fascia tra gli 800 e i
1200 m, si trovano soltanto sul versante piemontese tra Noasca,
Campiglia e Locana. Tra i 1500 e i 2000 m vi sono le foreste di
aghifoglie. Il pino cembro (Pinus cembra) è largamente
diffuso in Val di Rhemês mentre l'abete bianco (Abies alba)
si trova solo in Val di Cogne presso Vieyes, Sylvenoire e Chevril.
In tutte le valli troviamo il sempreverde abete rosso (Picea
abies) ed il larice (Larix europaea). Quest'ultimo è
l'unica conifera d'Europa che perde gli aghi nel periodo invernale.
I boschi di larice sono molto luminosi e permettono lo sviluppo di
un folto sottobosco composto da rododendri, mirtilli, lamponi,
gerani dei boschi, fragole di bosco.
Impossibile elencare la sterminata varietà di fiori che da marzo ad
agosto ravvivano con i loro colori i diversi ambienti del parco. Ci
limiteremo ad alcuni esempi. Il giglio martagone (Lilium
martagon), tipico del bosco, e il giglio di San Giovanni
(Lilium croceum), che sboccia nei prati, fioriscono
all'inizio dell'estate. Il velenosissimo aconito (Aconitum
napellus) si trova lungo i corsi d'acqua. Tra la fascia più
alta dei boschi e i 2200 m vi sono distese di rododendri con i loro
caratteristici fiori a campanula color ciclamino.
Oltre i 2500 m tra le rocce trovano il loro habitat la sassifraga,
l'androsace alpina, l'artemisia, il cerastio e il ranuncolo dei
ghiacci (Ranunculus glacialis). Anche la stella alpina e il
genepì si trovano a queste altezze ma sono rarissimi. Le torbiere e
le zone umide sono colonizzate dall'erioforo i cui candidi
batuffoli preannunciano la fine dell'estate.
L'animale simbolo del parco è lo stambecco presente in circa
3500 unità. Il maschio adulto può pesare dai 90 ai 120 kg. Le
corna, un tempo ambito trofeo, presentano delle nodosità nella
parte anteriore e possono arrivare anche a 100 cm. La femmina, più
piccola, ha delle corna più liscie lunghe appena 30 cm. I branchi
sono composti da soli maschi oppure da femmine e cuccioli. I maschi
anziani vivono isolati. Il periodo degli amori coincide con i mesi
di novembre e dicembre; in questo periodo gli stambecchi maschi che
hanno raggiunto la piena maturità sessuale si battono tra di loro
squarciando il silenzio dei valloni con l'inconfondibile rumore
delle cornate udibile anche dal fondovalle. La femmina rimane
fertile per pochi giorni. La gravidanza dura sei mesi. A primavera
inoltrata, la stambecca si ritira su qualche cengia isolata dove
darà alla luce (maggio, giugno) un piccolo, talvolta due. Lo
stambecco ha un carattere mite ed imperturbabile e si lascia
facilmente osservare dall'uomo.
Il camoscio, invece, è diffidente, elegante nei suoi balzi,
veloce e scattante. Di dimensioni minori (massimo 45-50 kg), se ne
contano oltre 7000 esemplari. Le sue corna, non imponenti come
quelle dello stambecco, sono sottili e leggermente uncinate. Questo
ungulato non è più in pericolo di estinzione in quanto l'assoluta
mancanza di predatori naturali ne ha favorito la crescita numerica
e l'eccessiva colonizzazione del territorio (durante l'inverno
scendono a valle danneggiando il sottobosco, attraversano le strade
asfaltate, arrivano a cercare il cibo a pochi metri dalle case)
tanto da rendere necessarie, a volte, delle azioni di caccia
selettiva per ridurne il numero.
Il parco, in passato, non era un ecosistema perfetto. I
predatori naturali erano del tutto assenti: l'orso e il lupo
estinti da secoli, gli altri sono perseguitati ai tempi della
riserva. Il compito delle Reali Cacciatori Guardie era quello di
proteggere la selvaggina non solo dai bracconieri ma anche dagli
animali ritenuti nocivi e il re ricompensava con laute mance
l'abbattimento di una lince, di un gipeto, di una volpe o di
un'aquila. Si giunse così, all'incirca nel 1912-13, all'estinzione
della lince europea e del gipeto barbuto; oggi si contano ancora
4-5 coppie di aquile mentre discretamente presente resta la volpe.
Negli ultimi anni si è cercato di reintrodurre la lince. Il lupo,
in aumento in Italia, risalendo l'Appennino, è tornato a farsi
vedere nel Parco negli ultimi anni e conta oggi 6-7 esemplari, si
tratta di un branco familiare di 5-6 esemplari tra la
Valsavarenche, la Val di Rhêmes e la Valgrisenche ed un lupo
solitario in Val di cogne <ref> Fonte:
http://www.pngp.it/documenti/Riviste/VOCI_02_2008_web.pdf
</ref>.
Un altro mammifero molto diffuso nel parco è la marmotta (se ne
contano circa 6000 unità). Vive in tane sotterranee con diversi
cunicoli come vie d'uscita. Predilige le praterie e le poche aree
pianeggianti (numerosissime al Piano del Nivolet). È un roditore e
ai primi freddi cade in un profondo letargo che dura quasi sei
mesi. Inconfondibile il suo verso: un fischio che la marmotta
"sentinella" emette, drizzandosi in verticale, quando avvista un
pericolo o un animale estraneo al suo ambiente seguito dal
repentino fuggi fuggi degli altri componenti del branco.
Fanno parte della fauna del Gran Paradiso anche numerose specie di volatili: poiane, picchi, cincie, pernici bianche, gracchi, sparvieri, astori, allocchi, civette.
Nei laghi e nei torrenti nuotano due specie di trote: una autoctona, la trota fario, l'altra alloctona, la trota iridea.
Tra i rettili ricordiamo le vipere (Vipera aspis, tipica delle zone asciutte, e Vipera berus che si trova presso i corsi d'acqua) e tra gli anfibi le salamandre (Salamandra atra e Salamandra salamandra).
Nei boschi di aghifoglie capita talvolta di rinvenire dei mucchi di aghi di conifere alti anche mezzo metro: sono i nidi della Formica rufa.
Le più comode località di accesso sono i paesi di Ceresole Reale e Ronco Canavese sul versante torinese, Cogne, Valsavarenche e Rhêmes sul versante aostano.
Boudin (salame con ortaggi), Salame con sangue di maiale e patate, Mocetta (prosciutto di camoscio). Sopravvive la lavorazione artigianale del cuoio, del rame, del ferro battuto e degli attrezzi agricoli da montagna.
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